Abito tradizionale o costume sardo? Una parola definitiva
A partire dalla processione di Sant’ Efisio a Cagliari, passando per la Cavalcata sarda di Sassari, fino alla manifestazione religiosa del Redentore di Nuoro, buona parte dell’anno in Sardegna si vivifica la frizzante diatriba sul nome del ricco complesso vestimentario tradizionale che rende l’isola famosa nel mondo. Dunque qual é la dicitura corretta da usare: “Costume” o “Abito tradizionale” nell’ambito del sistema vestemico di terra sarda?
Certamente non sono da considerarsi locuzioni sinonimiche. Non esiste giornalista sardo infatti che, impiegando l’una o l’altra definizione, non abbia dovuto rendere ragione della propria scelta. Analoga situazione si verifica in una conversazione su forum d’argomento folclorico, o una discussione sulle “piazze” social, o ancora più semplicemente durante una chiacchierata tra amici al bar.
Il termine costume, che oggi risulta essere improprio, serve però ancora a individuare diffusamente la cultura vestimentaria femminile della Sardegna che rivestiva un significato extra-verbale ben preciso, tanto da trasmettere a colpo d’occhio numerose informazioni sulla donna che lo indossava. In altre parole, seppure il termine non è ritenuto corretto da parte di alcuni studiosi della materia demo-etnoantropologica, esso non è un termine ambiguo e nel parlare di costume sardo c’è chi non trova alcunché di incomprensibile.
Tanti gli antropologi che negli ultimi anni si sono confrontati con la quadratura del cerchio. Impossibile citarne solo alcuni perché se ne scontenterebbero altri, ma certamente chi se n’è occupata con rilevante continuità è stata la studiosa Gerolama Carta Mantiglia.
Il mare, ritardante sugli effetti della modernità, ha funto d’altra parte da conservante di quei tratti caratteristici che, dall’abbigliamento alla lingua, sono divenuti essenziali e riconoscibili elementi identitari, unificatori di un popolo. Con uno sguardo si poteva accedere ad indiscrezioni sull’età, la provenienza, lo status sociale e persino la professione di chi lo portava.
Si distinguevano, inoltre, gli abiti per le giornate di festa e quelli giornalieri, le varianti per le donne sposate, per le ragazze nubili e per le vedove. Nei piccoli borghi indossare l’abito tradizionale è un’abitudine ancora integrata al vivere quotidiano, in altri è una pratica che viene svolta in occasione di commemorazioni e funzioni religiose, per la festa del patrono o semplicemente la messa domenicale.
Ma quando è avvenuto il passaggio dall’abbigliamento tradizionale a quello moderno per la donna? Gran parte degli studiosi di demo-etnoantropologia sarda è concorde nel ritenere che nel passaggio all’epoca industriale – sebbene il processo di snaturamento della cultura regionale fosse iniziato in epoca unitaria – il popolo sardo abbia preso a vivere complessi d’inferiorità nei confronti della propria lingua e del proprio abito, che possiamo complessivamente definire costume nel senso di insieme di abitudini, di “costumanze”.
Il sardo ha assunto un atteggiamento svalutativo tanto da «proiettare gli aspetti deleteri attribuiti a chi lo parla (ignoranza, povertà nei mezzi di istruzione e arretratezza)» come dichiara lo studioso di Cultura sarda Giovanni Mura. Per ciò che riguarda strettamente l’abbigliamento, eloquente, più di ogni saggio, sono invece le celebri tavole di Tarquinio Sini, brillante caricaturista sassarese, morto sotto gli ordigni bellici del ’43.
Soggetti prediletti di Sini sono le fanciulle desulesi che, avvolte nello sfavillante abito del paese, osservano le licenziose e civettuole signore del Continente in abiti moderni, con tanta curiosità e forse un po’di invidia. Inizia per queste giovani un lento innesto alla realtà che scorre fuori da casa e sagrato del centri rurali. Sini seppe interpretare con una carica di sottile umorismo il fenomeno di “sprovincializzazione” con la serie di celeberrime tempere “Contrasti”, in cui registrò argutamente gli umori di questa transizione culturale, non senza venarla di una ironica polemica che restituisce l’idea di ciò che comportò psicologicamente un passaggio alla modernità che fu tutt’altro che un automatismo.
Nel progressivo passaggio al comfort dell’abito “civile”, urbano, soprattutto la donna rinunciò al bagaglio simbolico, e ancor più materiale, intrinseco al vestiario sardo. In che senso precisamente? Le vesti e i gioielli passavano da una generazione all’altra e costituivano parte non secondaria della dote. Erano ritenuti un bene di rifugio e un investimento. Infatti non è trascurabile «l’aspetto economico del gioiello, il quale può quasi essere considerato come una forma di tesaurizzazione al riparo da qualsiasi evenienza imprevista. Il gioiello può essere utilizzato in qualsiasi momento come moneta di scambio», dichiara Vittorio Angius. Dunque la scelta della mimetizzazione nella società civile riesce ad avere la meglio sulla ricchezza identitaria, perché questo richiedono i tempi, soprattutto alla donna.
Il discorso è assai articolato e più complesso di un semplicistico riferimento all’avvicendarsi di mode e costumi. La vera rivoluzione nel vestiario concerne per lo più le classi popolari perché la moda dei ranghi superiori ebbe una contaminazione costante nel tempo e l’abito femminile si teneva di pari passo alle mode “continentaleggianti”. Certo è che il diffuso sentimento regionalista, di gusto poeticamente identitarista, si affievolì nel momento in cui molte fanciulle dai piccoli centri rurali si trasferirono nelle città in cerca di lavoro e dovettero adeguarsi alle mode urbane, non tanto per civetteria quanto per adeguarsi ed ambientarsi al vivere cittadino. La complessità della riflessione prende le mosse anche dal periodo storico in cui la transizione della cultura vestimentaria femminile sarda si verifica, tra ansia di modernità e rispetto della tradizione. La cultura sarda è sottoposta alla polarizzazione di due forze politiche contrarie.
Siamo nel pieno del Ventennio fascista che incoraggia le antiche pratiche rurali, esasperando la difesa dei caratteri rustici del folklore, dall’altro lato la spinta modernista della borghesia emancipazionista ispirata alle conquiste di una forte industrializzazione d’ispirazione cittadina che dall’ambito socio economico non tarderà a riflettersi sul campo culturale. L’abbandono dell’abito tradizionale non fu, insomma, una scelta compiuta in silenziosa solitudine ma una presa di posizione densa di significato, sia per quante decisero di abbandonare il “costume” sia per coloro che, con garbata festosità, ancora colorano le strade dei paesi sardi con la loro scelta di tenerlo.
L’imponente percorso di ricerca del sociologo Luigi Lorenzetti Donne e lavoro. Prospettive per una storia delle montagne europee del XIX-XX secolo evidenzia che nei centri dell’entroterra sardo il lavoro extra domestico fosse inteso dalle donne come umiliante, indicava una condizione di necessità che gli uomini non erano stati in grado di onorare.
“L’aspirazione delle donne non era quella di lavorare fuori casa ma al più di lavorare per la propria famiglia-azienda. Era soprattutto questa condizione ad essere ritenuta un privilegio dalle donne, ed a questa esse miravano”.
Non è del tutto esatto, dunque, estendere il cambiamento della moda vestiaria all’idea di una rivendicazione femminista. O per lo meno non fu solo questo.
La riflessione che ha originato il nostro ragionamento, il secolare utilizzo del termine “costume”, muove proprio dal passaggio progressivo, ma non sempre graduale, all’abito moderno. Ciò che era abito quotidiano viene riposto nel guardaroba, senza nostalgia, con il nome di costume, di artificio mascherativo, a cui attribuire una funzione folcloristica e, via via turisticizzata, solo durante le occasioni festive.
Gerolama Carta Mantiglia sul tema non scende a compromessi: «È il caso di spendere qualche parola a proposito dell’uso che si continua a fare (e che non si dovrebbe fare) della parola costume e dell’uso che non si fa (e che invece si dovrebbe fare) dei termini vestiario e abbigliamento popolare».
Per l’antropologa il vocabolo ‘costume’ ha una valenza negativa legata all’auto concezione di cultura sarda come subalterna. A questa concezione la studiosa attribuisce la preservazione del solo abito della festa, quello sfarzoso, in virtù della gioielleria annessa, e allo stesso tempo, imperdonabilmente, nessuna cura verso il vestito quotidiano considerato retaggio di lavoro e umiltà, da cui il termine asettico e distaccato di costume.
Solo in tempi recenti, nel clima di un rinato rigore identitario è ripresa con un certo rimpianto l’affannosa ricerca sulle origini dei vari tipi di vestiario e con essa un rifiuto categorico da parte degli studiosi del termine “costume” considerato dispregiativo di una realtà tutt’altro che caricaturale o riconducibile a situazioni lontanamente carnascialesche. La conclusione del pensiero antropologico in materia di cultura popolare é pressoché concorde nell’ammettere che il nuovo vigore della ricerca non sia un nostalgico archeologismo ma l’esigenza di una funzione aggregativa ricca dei valori della tradizione indispensabili al futuro del popolo sardo.
Ilaria Muggianu Scano