Veronica Meleddu: In sala operatoria con dedizione e amore
Come è iniziata la passione per il suo lavoro?
Da sempre è un lavoro che ho nel sangue. Sin dalle scuole elementari sono rimasta affascinata dal sistema nervoso. Il fatto che un organo potesse coordinare tutti gli apparati mi ha veramente colpita, è straordinario. Così mi sono iscritta alla facoltà di medicina e, a Pavia, mi sono specializzata nella conoscenza di questo apparato.
Cos’è in poche parole la neurochirurgia?
E’ la disciplina per la terapia chirurgica delle malattie del sistema nervoso. Richiede una profonda preparazione perché intervenire sul sistema nervoso senza un’adeguata conoscenza può essere molto rischioso per il paziente. L’intervento del neurochirurgo deve essere delicato, è necessario rispettare le strutture aggredite e rimuovere definitivamente la lesione. Bisogna perciò conoscere bene l’anatomia e verificare scrupolosamente i rapporti della lesione con le strutture funzionali. Ricorda
il suo primo intervento?
Fu nel 1985 durante la scuola di specializzazione che ho frequentato a Pavia. Feci da ausilio al chirurgo, dovevo drenare le cavità ventricolari. . Comunque una soddisfazione, anche se il mio fu solo un compito di routin. Lavora all’ospedale Brotzu di Cagliari dal 1989.
Che tecniche utilizzate nel reparto di neurochirurgia per gli interventi?
Le tecniche chirurgiche moderne si basano sul rispetto massimo del tessuto nervoso. Per realizzare questo scopo sono necessari strumenti sofisticati, sia per l’accesso, sia per la manipolazione chirurgica. L’accesso viene studiato in base alle caratteristiche della lesione ed alla sua localizzazione. Per le lesioni vascolari e per taluni tumori risulta indispensabile anche la conoscenza della struttura vasale normale e patologica. Normalmente l’esperienza e la perizia del chirurgo permettono di localizzare e trattare la lesione con minimo danno del tessuto sano. Sono state sviluppate a questo proposito tecniche chirurgiche attraverso la base cranica il cui scopo è quello di retrarre il cervello il meno possibile e giungere all’area di interesse attraverso la via più breve. L’uso del neuroendoscopio agevola fortemente questo proposito. In aree cerebrali particolarmente critiche (area motoria o del linguaggio) è necessario un monitoraggio clinico e soprattutto elettrofisiologico, per delimitare i confini chirurgici. Col paziente spesso sveglio o risvegliabile si stimola l’area di interesse, localizzando la zona corticale che controlla la funzione da salvare. E’ indispensabile un lavoro d’equipe e una conoscenza approfondita del paziente e dei macchinari che ci supportano durante l’intervento.
Quanti interventi effettuate lei e la sua equipe?
In media tre alla settimana.
Quanto dura ogni intervento?
Dipende dalla patologia per cui interveniamo. Il paziente può rimanere sotto i ferri venti minuti, un’ora ma anche un’intera giornata se è necessario.
Che età hanno i suoi pazienti?
Tutte le età. Ho dovuto operare anche dei bambini. Molti comunque sono pazienti che hanno subito un trauma cranico in seguito a un incidente stradale. La maggior parte delle persone che entrano nelle sale operatorie, purtroppo, arrivano in ospedale con dei gravi traumi cranici che richiedono un intervento urgente.
Quanto tempo impiegano i suoi pazienti per riprendersi e tornare a una vita normale?
In genere se l’intervento è riuscito dopo 7 giorni il paziente può tornare a casa e dopo 15 è in grado di riprendere a lavorare.
Cosa vuol dire essere una donna neurochirurgo?
E’ una scelta di vita importante. Essere neurochirurgo vuol dire non dimenticarsi mai che la vita degli altri è nelle tue mani. Non puoi permetterti di sbagliare, tanto meno se sei una donna. Questo lavoro è da sempre stato prerogativa degli uomini, sono ancora poche le donne neurochirurgo in Italia e non è facile competere. La determinazione è indispensabile. Non ci si deve lasciar abbattere delle sconfitte, bisogna superarle. Inoltre è necessario mettersi in discussione, mai pensare di aver raggiunto l’apice della conoscenza.
Lei è moglie e madre di due figli. Come fa a conciliare il suo lavoro con gli impegni della sua famiglia?
E’ molto difficile. Il mio lavoro non mi permette di avere una giornata scandita da dei ritmi costanti. Ogni giorno so a che ora prendo servizio ma mai quando torno a casa. I miei figli sanno che nel mio lavoro non esiste nulla di certo, devo essere sempre reperibile perché possono chiamarmi in ogni momento. Ma parlo molto con loro, sanno che il dovere e la responsabilità è molto importante. Quando erano piccoli li ho portati con me in ospedale perché vedessero con i loro occhi e capissero cosa vuo dire lavorare nel mio reparto e salvare vite umane. E’ stato difficile e spesso ancora lo è ma per i miei figli ci sono sempre anche quando entro in sala operatoria.
Cosa pensano i suoi colleghi di lei?
Credo che mi stimino. Sono molto determinata, so farmi rispettare.
Quale è il suo prossimo obiettivo?
Specializzarmi nel cura dei tumori al Basicranio.
Che consiglio vuole dare alle altre donne che come lei vogliono fare questo mestiere?
Non si devono mai lasciar abbattere da nulla. Il nostro è un lavoro che richiede un forte senso di umanità. Devono ricordarsi che prima di tutto hanno a che fare con persone non con malati. E’ fondamentale instaurare un rapporto di stima e fiducia tra loro e il paziente, devono accompagnarlo in ogni istante, prima, durante e dopo l’intervento. Non arrendersi davanti alle difficoltà e ricordarsi che sbagliare è umano. L’importante è sapere di aver fatto tutto il possibile.
Quale è la sua più grande soddisfazione?
Sono due le mie più grandi soddisfazioni: la prima, quando ricevo i ringraziamenti dai miei pazienti edai loro familiari, e la seconda è quando torno a casa e i miei figli mi chiedono come stanno i miei pazienti