Coronavirus: quanto può peggiorare la nostra vita nei rapporti interpersonali distanti senza baci, abbracci e strette di mano?
Quanto può peggiorare la nostra vita nei rapporti interpersonali distanti senza baci, abbracci e strette di mano?
Quante volte ci siamo domandati ” che vita sarebbe senza più abbaciarci, baciarci, guardarci e stringerci la mano?” ecco ora ci troviamo realmente in questa condizione. Dall’oggi al domani ci ritroviamo senza libertà. Costretti a mantenere le distanze senza pietà. Ma.. , una distanza di almeno un metro dalle altre persone, salutarsi da lontano senza baci, abbracci o strette di mano, evitare i luoghi affollati, non uscire anche se si ha soltanto un po’ di febbre e non c’è alcun sospetto di aver contratto la malattia, rimanere a casa se si hanno più di 75 anni oppure 65 ma non si è in buona salute, ci farà capire il valore della vita e il rispetto tra esseri umani?
Mentre noi meditiamo su cosa ci sta succedendo, l’impetuoso virus si muove senza scrupoli e Il Governo ha deciso di estendere, per un mese, a tutta l’Italia le misure per evitare la diffusione del coronavirus che, fino a oggi, erano riservate solo alla «zona rossa» e alle regioni con il maggior numero di contagi, come Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
Ma in che modo queste norme per il contenimento del virus cambieranno la vita a un popolo, come quello italiano, così «fisico»? il sociologo Mattia Vitiello, ricercatore presso l’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche (Irpps-Cnr) ci ricorda «Se c’è un punto comune alle varie discipline psicologiche, questo riguarda l’insopprimibile bisogno dell’uomo, di ogni cultura o nazionalità, di affetto e di socialità. Reprimere questo bisogno porta a conseguenze molto dannose e non c’è bisogno di scomodare Freud, Eric Berne o altri grandi autori per avere conferme. Ma la proibizione di determinati comportamenti che vanno in direzione di una – seppure parziale – soddisfazione di questo bisogno, quando non è stabilita da uno Stato etico o da precetti religiosi, non ha molto riscontro nella società. Certo, c’è un’emergenza sanitaria che potrebbe giustificare e dare forza a questa proibizione, ma comunque sono solo consigli, che non avranno grandi ricadute sulla società né in termini di contenimento del contagio. Questi sono provvedimenti che mirano soprattutto a rassicurare i cittadini: a dare l’impressione che le autorità si stiano prendendo cura di loro e controllino la situazione».
C’è il rischio che la paura possa incidere sui rapporti interpersonali, peggiorandoli?
«Per valutarlo, bisogna prima capire da dove traggono origine questi “consigli”. Negli ultimi decenni le autorità politiche hanno sempre più governato attraverso provvedimenti eccezionali che rispondono a situazioni di emergenza reali o indotte attraverso la diffusione della paura. Ricordiamo la paura degli attentati dopo l’attacco alle Torri Gemelle, il timore dello straniero pericoloso perché, appunto, estraneo. Negli ultimissimi anni, questa paura si è proiettata anche sugli eventi naturali: emergenza meteo, vento forte, pericolo frane. Praticamente viviamo in un clima di emergenza quasi quotidiano. Questo clima di paura astratta ha permeato non solo i “governati” ma anche i “governanti”, che adottano politiche estreme anche quando non ce n’è bisogno, abdicando a favore degli esperti, degli scienziati, dei tecnici, pur di evitare di assumersi la responsabilità politica di una decisione. La paura favorisce la chiusura nei confronti all’altro per evitare potenziali pericoli e produce una situazione di paranoia, cioè di paura senza un preciso bersaglio o motivo, e quindi peggiora sicuramente i rapporti interpersonali. Ma comunque esiste quell’insopprimibile bisogno di socialità che porta all’apertura e a una visione più critica della realtà sociale. Pensiamo alle reazioni sui social: accanto alle bufale su serpenti, pipistrelli e topi vivi, si diffonde una sana ironia che straccia il velo della paura per denunciare il virus per quello che è».
Che cosa dobbiamo imparare da questa situazione?
«In primo luogo, si è capito che bisogna investire nella Sanità pubblica. In prima linea ci sono gli ospedali pubblici: non vedo per ora privati che si offrono di ospitare malati in terapia intensiva. Bisogna investire sul capitale umano, cioè sull’istruzione pubblica: penso, ad esempio, alla revisione del numero chiuso per l’accesso alle professioni mediche. Infine, occorre rinunciare alla paura come metodo di governo».
C’è il pericolo di emarginazione per determinati gruppi sociali?
«In questa situazione italiana piena di paradossi, quelli che prima rischiavano l’emarginazione, perché impaurivano, oggi sono scomparsi dalla scena. Penso agli immigrati che fino a due settimane fa sembravano essere l’origine di tutti i mali italiani e che alcuni politici volevano rappresentare come untori anche per il coronavirus, portato dai barconi sulle coste italiane. Oggi sappiamo che il coronavirus è arrivato in Italia con un aereo, viaggiando in prima classe e portato da un italiano. Inoltre, proprio la parte d’Italia più ricca ed orgogliosa, che si pensava guida e faro d’Italia si è scoperta fragile. Infine, questo coronavirus ha dimostrato quanto sia importante per una società avanzata una struttura sanitaria pubblica e capillare sul territorio, in cui medici e infermieri italiani della Sanità pubblica lavorino perseguendo l’obiettivo comune del benessere e non quello dello stipendio sicuro, come tanta retorica antistatalista ha raccontato negli ultimi anni. Oggi abbiamo la possibilità di emarginare la paura e l’egoismo per costruire una collettività italiana fondata sulla solidarietà».