Le Prefiche
Per tradizione piangono il “defunto”. Non si tratta certo di un’attivita’ attualmente molto diffusa, ma di una rimembranza che ci arriva dal passato, da un passato non soltanto tipicamente isolano ma che affonda le sue orgini nella cultura prima pagana e poi cristiana, presente anche nel meridione d’Italia. Tra mito e storia, parliamo delle prefiche, le donne che hanno il compito di vegliare il defunto dopo la sua morte, e di accompagnarlo dalla chiesa fino alla sepoltura. Sono i parenti stessi che chiedono l’intervento delle prefiche affinche’ il loro caro possa essere aiutato ad un trapasso piu’ sentito. Abbiamo incontrato la signora Giuseppina e la signora Mariangela, settantunenne l’una e ottantaduenne l’altra, di una paese dell’hinterland cagliaritano, che ci chiedono di poter mantenere l’anonimato. Indossano abiti scuri, fazzoletto anch’esso scuro intorno al capo, tengono in mano il rosario e si raccontano rigorosamente in lingua sarda. Le abbiamo incontrate al termine di un funerale in cui hanno prestato la loro “opera”. Hanno sguardi sereni, e la voce sommessa. “Il nostro non e’ un lavoro – hanno precisato – ma e’ un mantenere in vita una tradizione oggi quasi completamente scomparsa. “Piangiamo il morto” (riporto testualmente, n.d.r.), preghiamo per lui, e aiutiamo la famiglia a ricordarlo durante la veglia nel miglior modo possibile”.
Signora Mariangela, Signora Giuseppina, in cosa consiste esattamente la vostra opera?
Non si tratta prima di tutto di un lavoro. Noi veniamo chiamate dalla famiglia del defunto affinche’ possiamo pregare per lui, decantarne le lodi durante la veglia, e piangere durante il funerale. Il pianto richiama la sofferenza per la perdita della persona scomparsa. Nei tempi antichi, ce lo hanno raccontato le nostre madri e le nostre nonne da cui abbiamo appreso l’arte, si richiedeva l’intervento delle prefiche quando il defunto non aveva nessuno che potesse piangere per lui. In seguito le cose sono cambiate. Si piange il defunto insieme alla famiglia e si prega con questa durante la veglia e nel tragitto tra la chiesa, dove si e’ svolta la messa, e il cimitero, dove avviene la tumulazione.
Quando avete iniziato a partecipare come prefiche ai funerali?
Abbiamo sempre conosciuto la figura delle prefiche fin da bambine, ma ci hanno insegnato cio’ che si deve fare in questi casi solo da adulte. Mia nonna – ci riferisce la signora Giuseppina – ha deciso espressamente che fossi io a continuare la sua opera quando lei non avrebbe piu’ potuto farlo. E qualche volta mi portava con lei per insegnarmi la nostra tradizione.
Esiste un ‘rituale’, una preghiera particolare che voi di solito proponete?
Si. La prima cosa che facciamo e’ una preghiera al cappezzale del defunto. in genere recitiamo il rosario. Dopo di che parliamo della persona scomparsa, che in genere conosciamo molto bene. La nostra e’ una tradizione che pratichiamo da molti anni nel nostro paese dove gli abitanti si conoscono tutti. Piangiamo insieme alla famiglia del defunto con toni lamentosi. Il nostro e’ un vero e proprio lamento, che serve a sottolineare la sofferenza che la famiglia prova per la perdita subita. Durante il rito, siamo in piedi, e facciamo oscillare il corpo che si muove insieme al lamento. Usiamo anche un fazzoletto. Lo sventoliamo discretamente sul defunto per poi portarlo al viso e asciugarci le lacrime. E’ una forma di ultimo saluto.
Venite ricompensate per la vostra opera?
Noi non chiediamo assolutamente niente. La nostra e’ una partecipazione gratuita. Un tempo le prefiche erano invece pagate. In genere, comunque, le famiglie che richiedono il nostro intervento ci omaggiano con dei dolci sardi.
Per capire quanto possa essere diffusa l’opera delle prefiche, avete partecipato a tanti funerali?
No. Io ne ho fatti tre in tutta la mia vita – commenta la signora Mariangela. Io ne ho fatti altrettanti – fa eco la signora Giuseppina – forse quattro. E due di questi li abbiamo fatti insieme. L’essere chiamate e’ ormai un evento molto raro. La tradizione sta letteralmente scomparendo. Oggi le famiglie preferiscono vivere il dolore con piu’ riservatezza, senza troppi clamori. E poi c’e’ anche da dire che molti considerano il nostro rito come se fosse pagano e non cattolico. Ma il nostro non e’ cosi’. Noi siamo credenti, praticanti e molto religiose.
Il rito infatti era praticato anche dai pagani. Le prefiche, nella cultura pagana, appunto, piangevano esibendo una precisa “tecnica del pianto e del lamento”, talvolta con mimiche plateali, in senso di protesta verso la vita che aveva strappato il defunto ai propri cari.
Antonio Bresciani descrive in proposito l’usanza tra le donne sarde del passato: “In sul primo entrare, al defunto, tengono il capo chino, le mani composte, il viso ristretto, gli occhi bassi e procedono in silenzio…oltrepassando il letto funebre…indi alzati gli occhi e visto il defunto giacere, danno repente in un acutissimo strido, battono palma a palma e gittano le mani dietro le spalle…inverochè altre si strappano i capelli, squarciano cò denti le bianche pezzuole c’ha in mano ciascuna si graffiano e sterminano le guance, si provocano ad urli…a singhiozzi…altre stramazzan a terra…e si spargon di polvere…poscia le dolenti donne così sconfitte, livide ed arruffate qua e la per la stanza sedute in terra e sulle calcagna si riducono ad un tratto in un profondo silenzio…” (A. De Gubernatis, 1869).